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IL GRANDE FREDDO
(THE BIG CHILL)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 marzo 1985
 
di Lawrence Kasdan con Tom Berenger, Glenn Close, William Hurt, Jeff Goldblum, Kevin Kline, Meg Tilly (Stati Uniti, 1983)
 
È un lungo brivido (altro che freddo, come hanno tradotto, al solito beceramente, il titolo inglese) quello che provano otto amici. Si ritrovano infatti, una decina di anni dopo quelli di scuola, al funerale di uno di loro, Alex, morto suicida. Tutti parlano di Alex; ma di lui, alla fine del film non ne sapremo molto di più. In compenso, sapremo tutto degli altri: una volta stemperata la tristezza nella gioia di ritrovarsi assieme (e nell'alcol, e nell'erba, e via dicendo) riaffioreranno i ricordi, le ambizioni, le soddisfazioni e, soprattutto, le amarezze, le frustrazioni e le angosce.

E l'occasione tipica del bilancio esistenziale, quello che il teatro (Harold Pinter o Tennessee Williams) ed il cinema stesso (GEORGIA di Arthur Penn e IL GRUPPO di Sidney Lumet) hanno spesso affrontato. E anche il tema che già sembra affermarsi nel cinema ancora giovane di Kasdan: quello dello scacco esistenziale che accompagna immancabilmente (proprio il contrario del leggendario credo americano) la riuscita sociale.

Il Grande freddo si annuncia sin dalle prime immagini con le regole del genere: unità di tempo, di luogo e d'azione, rispetto della struttura teatrale che sta a monte di queste cose. Ma Kasdan, lo si era già visto nel suo primo e precedente BODY HEATH ha già un ottimo mestiere: sa guardarsi attorno, legare i personaggi agli ambienti, quello che si dice creare un'atmosfera. Dietro ai titoli di testa scorrono asciutte, efficacissime le immagini folgoranti della vestizione del morto. E tutta la prima parte del film, la cerimonia in chiesa permeata d'immediata commozione, il magnifico corteo funebre, con il serpente delle macchine nere che corre in un paesaggio dolcissimo sul filo di una musica curiosamente rievocativa e fuori atmosfera come il Can't always get what you want dei Stones, immettono brillantemente lo spettatore in quello che sarà il tema del film. Giocando sulla sua abilità nella direzione d'attori (e, naturalmente sulla loro straordinaria resa professionale) Kasdan cerca il segreto del cinema sociologico: quello nel quale ogni personaggio perde delle proprie caratteristiche per diventare esemplare, rappresentativo di una certa tipologia e di una traiettoria sociale.

Kasdan ci riesce benissimo quando riesce a non privilegiare nessuno dei suoi protagonisti, a farli evolvere nel racconto con un difficile equilibrio che gli serve appunto per ottenere il suo spaccato sociale. Meno, nell'evitare quello che è il rischio di queste operazioni, lo schematismo. Dopo un po', infatti, intrigo e personaggi diventano assai trasparenti: ed eccoti il reduce dal Vietnam cocaina ed impotenza, l'ex-militante che si è dato al commercio, il giornalista alla ricerca dello scoop ad ogni costo, l'attore televisivo dall'abbronzatura fasulla.

Temi e sviluppi un pochino risaputi: così che anche risaputa diventa (perché le due cose vanno poi sempre assieme) la regia di Kasdan: elegante, attenta ai suoi magnifici attori. Ma anche timorosa di affondare l'obiettivo nelle piaghe e quindi, in definitiva un po' decorativa. E poco, è tanto? Aspettiamo il prossimo Kasdan, che non tarderà a giungere, visto che il film ha lavorato benissimo. Hai un bel fare dei film sull'ossessione per la riuscita: prova a sbagliare il tuo film, e poi vedi cosa ti fanno fare la volta dopo i produttori.


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